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Il modo di mangiare italiano viene riconosciuto ormai come modello di salute e benessere a livello internazionale", ma in “Dieta mediterranea. Realtà, mito, invenzione” (Treccani) Vito Teti conduce un’indagine sulle vere origini della nostra cucina
Il modello attuale della dieta mediterranea non corrisponde alla realtà storica di nessuna area geografica del Mediterraneo. Ancora nella prima metà del Novecento e fino agli anni Cinquanta le poppolazioni meridionali presentavano un regime alimentare a base di pane di mais, patate, pomodori, peperoni, legumi, e per il condimento usavano il grasso di maiale. La «trinità mediterranea» (olio, grano e vino) restava un’eredità pesante, che caratterizzava, però, la cucina dei ricchi e soltanto i sogni dei ceti popolari. Il condimento con il «grasso porcino» ebbe quasi dovunque una significativa e non breve fortuna. In molte zone interne e montane del Sud i contadini poveri consumavano grasso di maiale e mangiavano «erbe mal condite» ancora dopo la seconda guerra mondiale. In Abruzzo, Molise, Campania e Calabria ancora nei primi anni del Novecento venivano segnalati sia olii mal confezionati o avariati sia grasso di maiale rancido. La pasta, a eccezione di quella fatta in casa nelle feste, ancora all’inizio degli anni Cinquanta rappresentava un genere di lusso.
All’inizio del Novecento Alfredo Niceforo (1876-1960), il maggiore divulgatore della teoria dell’inferiorità razziale dei meridionali, segnalava come la popolazione di tutta l’Italia mangiasse meno e peggio degli anglosassoni, in particolare come fosse all’ultimo posto rispetto alle altre popolazioni europee per il consumo della carne.
Niceforo, come gli altri studiosi dell’epoca, considerava la carne la sostanza alimentare per eccellenza e il basso consumo di essa la causa della depressione fisica e psicologica delle popolazioni latine. Il consumo della carne era massimo al Nord e minimo al Sud. Le numerose indagini statistiche da lui citate (in particolare quelle di Enrico Raseri del 1879) mostravano come nel 1879 il consumo annuo di carne per individuo fosse al Nord di 17,9 chili, al Centro di 17,3 chili, al Sud di 6,4 chili, in Sicilia di 5 chili, in Sardegna di 12,2 chili.
Lo stesso enorme dislivello veniva riscontrato nel consumo delle uova e anche in quello dei cereali, oltre che dello zucchero e del caffè, simboli di un maggiore benessere: al Sud si consumava un po’ più di frumento e in misura più o meno uguale legumi freschi e secchi. La popolazione del Sud era essenzialmente vegetariana, mentre quella del Nord era principalmente carnivora. Questa era una delle ragioni (e dei segni) della statura media o piccola, dell’aspetto emaciato, dello scarso sviluppo muscolare, del difetto di energia, della tendenza all’ozio, della depressione e dell’infelicità dei meridionali (Niceforo, 1901).
All’epoca, gli studiosi anglosassoni ed europei di scienza dell’alimentazione si basavano sul valore dietetico della carne ed erano lontani, in un’Europa che usciva appena e non dappertutto dalla fame, dal mitizzare un’alimentazione considerata inadeguata e carente dei principi nutritivi. Le due Italie erano dissimili e diverse anche per le due distinte alimentazioni e, naturalmente, il Sud era inferiore anche nei consumi e nei modelli alimentari e tale sarebbe rimasto fino a tutti gli anni Sessanta (Cialfa, 1968).
Nel Mezzogiorno continentale e nelle isole esistevano, tuttavia, anche notevoli differenze nelle disponibilità e nei consumi. Nel 1968 Eugenio Cialfa trovava che la Calabria avesse una disponibilità inferiore a quella della media nazionale e anche di altre regioni meridionali per il consumo di cereali minori, frutta fresca e uova, carne bovina e altre carni, pesce fresco e pesce conservato, latte bovino, formaggio, zucchero e vino (ibidem). Le opere di scrittori come Matilde Serao, Giovanni Verga, Grazia Deledda, Corrado Alvaro, Saverio Strati o Ignazio Silone, la letteratura orale con i suoi canti e proverbi, le memorie raccolte ancora negli anni Settanta rivelano come la diversità di consumi rifletta differenze di ordine sociale (Teti, 1976).
La prima grande contrapposizione alimentare (con risvolti a livello sociale, culturale e mentale) era quella, segnalata già all’inizio dell‘Ottocento dai relatori della statistica murattiana, tra ceti poveri «mangiatori di pane nero» e ricchi «mangiatori di pane bianco» (Storchi, 1985). Per le categorie più disagiate il consumo di pane di grano restava una sorta di miraggio, un sogno realizzato poche volte nel corso della vita. Abituale era il ricorso a granaglie, a cereali minori, soprattutto mais (a partire dalla metà del xvii secolo), a misture di legumi, lupini, castagne e, in tempi di carestie e di gravi difficoltà, erbe selvatiche e ghiande. L’altra grande opposizione era quella tra i ceti popolari «mangiatori di erbe» e i ceti benestanti «mangiatori di carne» (Teti, 2020b). Ancora all’inizio dell’Ottocento gli osservatori potevano confermare questo stesso dato, che resterà sostanzialmente inalterato fino alla prima metà del Novecento.
L’altra grande differenza era data dal consumo del pesce. Da una parte i ricchi che avevano accesso al pesce fresco, dall’altra i poveri che consumavano pesce conservato, salato o essiccato. Soprattutto nelle zone interne e nei piccoli centri, dove il pesce fresco non arrivava quasi mai, e baccalà e stoccafisso, sarde e aringhe si affermarono come alimenti eccezionali e festivi. Il notevole consumo di pesce conservato in una ricca e fantasiosa cucina del territorio è una conquista piuttosto recente, rientra in una «riscoperta» da parte delle élites di quella che un tempo costituiva una cucina povera. Come in altre parti d’Europa, il pesce fresco richiama immagini di ricchezza, mentre quello conservato è considerato un surrogato della carne (Montanari, 1993). I ricchi consumano in misura assai maggiore, rispetto ai lavoratori della terra, anche uova, salumi, latticini, pasta, olio e vino.
La diversità sociale emerge dalla quantità di cibo consumato: mangiare in abbondanza resta ancora in anni recenti segno di ricchezza e di potere. Per i ceti popolari non c’è molta somiglianza tra il misero vitto quotidiano dei poveri e la cucina sfarzosa degli aristocratici. Si affacciano almeno due diverse «pratiche alimentari mediterranee», ma la realtà è più complessa e articolata: bisogna considerare che uno stile alimentare non è dato soltanto da ciò che una popolazione mangia, ma anche da ciò che non mangia (per scelta o per necessità), da ciò che vorrebbe consumare e non può farlo per indisponibilità dei prodotti desiderati.
Significative sono le differenze legate all’ambiente geografico, alla produzione e alle forme di insediamento. Gli abitanti dei centri costieri hanno avuto una discreta disponibilità di pesce, che diffi- cilmente, per difficoltà di trasporto, arrivava nelle zone interne. Accanto alle diverse zone cerealicole, dipendenti da ragioni di ordine climatico e di produttività, vi erano distinzioni significative tra prodotti delle zone montane, collinari e marine. Fino agli anni Cinquanta gli abitanti dei centri urbani hanno avuto maggiore disponibilità di frumento, carne fresca, pesce fresco, pasta, vino rispetto agli abitanti dei paesi e delle campagne, che spesso si sono nutriti soltanto con quanto prodotto direttamente o reperito nelle comunità e nelle zone di residenza.
L’alimentazione variava in base ai diversi periodi dell’anno. In inverno si consumava maggiormente il pane di mais, o di orzo o di castagna o misture di cereali minori. D’estate era più accessibile il pane di grano. L’inverno, periodo di vuoto produttivo, era il più infelice dal punto di vista alimentare. Questo dato conferma come risultino forzate e tendenziose le invenzioni delle tante «gastronomie regionali». Anche all’interno delle categorie sociali dell’universo popolare tradizionale (contadini, piccoli proprietari, mezzadri, coloni, braccianti, pastori, artigiani, pescatori) si registravano a volte disponibilità alimentari, tecniche culinarie, ritualità notevolmente differenziate. Pratiche alimentari diverse erano legate ai lavori stagionali, alle relazioni sociali, alle possibilità familiari, al calendario religioso, alle feste, talvolta al gusto individuale.
Tratto da “Dieta mediterranea. Realtà, mito, invenzione” (Treccani) di Vito Teti, 9,50 €, pp. 144