2014-02-01 L’Osservatore Romano
Buttati giù dal letto tutti corrono per strada. Ancora è notte fonda. Indossano la sola camicia e la papalina. Uomini e donne, bambini e vecchine, stanno col cero in mano e sciamano ovunque. Anche il vescovo è con loro. E poi il sindaco.
Ecco, Agata. Sacra ancor prima che santa. Catania la venera e il presagio delle sue virtù comincia già dal 246, anno della sua nascita, imperante Decio, al tempo di Quinziano. Proconsole di Roma, Quinziano fu l’uomo che le rivolse — mai ricambiato — l’amore e il desiderio carnale fino ad affidarla alla lascivia di due gran dame e di Afrodisia, una cortigiana, affinché ne corrompessero le virtù, ma invano. Questo amore mai corrisposto lo raccontò in una tragedia Antonio Aniante. Quinziano, appunto. Un’opera degli anni Trenta, un innesto d’avanguardia nel solido ceppo dell’agiografia affidata a Turi Giordano, un attore.
Ecco, Agata. Ragazza di grande educazione, coltivata secondo i costumi dell’aristocrazia che la seguì fin tra le braci della tortura per sostenerne il respiro e farle proclamare, al modo di un hidalgo, «io non sono solo libera di nascita ma provengo da alto lignaggio».
Vestita di solida ricchezza parlò innanzi alle autorità del palazzo pretorio. E, con la consapevolezza del proprio rango, aggiunse: «Così come a tutti voi è noto essendo qui presente tutta la mia nobile parentela».
Agata il cui nome è tra i più antichi nel martirologio della Chiesa ortodossa e di Santa Romana Chiesa ebbe a patire il tormento mentre una mano, pietosa, ne protesse il pudore coprendola con un velo che ancora oggi — nel 2014 — riesce a placare la fornace di Etna, sempre pronta a inghiottire la città. Nel 252, un anno dopo la morte (che avvenne il 5 febbraio, la data in cui la celebriamo), dal cratere del vulcano traboccò la lava fino a farsi largo tra le case. Fu quel velo a fermarne la corsa. Lo stesso miracolo si ripetè nel 1886. Si aprì nel cono una nuova bocca e lava precipitò cercando facile via nella discesa.
Era il 24 maggio e il cardinale Dusmet saliva da Catania in processione, lungo la stessa traiettoria. Aveva con sé il velo e tutta quella morte rovente ebbe a fermarsi contro ogni legge di gravità e lì si spense. Un altare, ancora oggi, lo ricorda. Condotto in processione, il velo protesse il popolo dal tremendo terremoto del 1169. E così dalla peste, dalla furia saracena che solo nella costa catanese — temendo di offendere Agata — fermò le stragi e i saccheggi; Federico ii di Svevia, pronto a mettere a ferro e fuoco Catania, acconsentì che venisse celebrata un’ultima messa in onore di Agata, presenziò egli stesso ma — leggenda vuole — sul suo breviario ebbe a leggere un monito e la risparmiò. Noli offendere patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est.
Non si è mai dato un istante in cui Catania sia stata orba di Agata e quando gli americani, dalle loro fortezze aeree, nel luglio del 1943 bombardarono minuziosamente ogni angolo, perfino gli ospedali, ebbero a trovare come unico scudo, messo a far da contraerea, quel velo. E fu quel velo che seppe poi tenerli lontani e fu così che le sacre, più che sante, reliquie non diventarono allora maceria tra le macerie.
Agata il cui segnacolo è un’autorità regale chiama a sé gli angeli e il blu dei cieli per attestare l’unicità di Dio. Santa protettrice di Palermo che la onora ai Quattro Canti, il vertice dei quattro quartieri della felicissima caput regni et sedes regis, dunque accanto ai quattro re e alle altre sante — Cristina, Ninfa e Oliva — Agata è patrona di Catania che diventa magma ai suoi piedi.
Tutti sono buttati giù dal letto e tutto quello squagliare di fuoco — ciascuno con la candela — trasforma le strade, da nere che sono, scure di pietra lavica, in un impasto di chiarore e devozione. Più sacra che santa, Agata di Catania fa propri gli attributi di Iside, la divinità remota del Mediterraneo sacro. La religione è propriamente re-ligere, il legare insieme il tempo e i luoghi, le anime e l’eterno.
Ecco, Agata. È vergine e martire. Bella di ogni bellezza — nel culto tributatole ancora quale patrona etnea, di Galatea, di Gallipoli, di Malta e della libera Repubblica di San Marino — Agata conferma tutto ciò che la dea votata alla fede in Horus, il Rinato, ha già profuso nei millenni: fare uguale il potere delle donne e degli uomini. E fare della luna un vivo sole, fare dell’affanno una consolazione e così trasformare la tomba in un infinito sublime dove l’ex voto di un bambino scampato a un cancro fulminante convive col bisogno — per un padre di famiglia — di vedere stabilizzato il proprio contratto di precario presso la Regione siciliana.
Tutto uno scambio di preghiera e misericordia tangibile già agli angoli, di fronte al mare, dove tutti — vestiti nel sacco della notte, con il cappelluccio nero in testa — nella edificazione delle edicole votive e poi nell’uscire per strada, invocandone la presenza, replicano la chiamata del 17 agosto 1126 quando Gilberto e Goselmo, due soldati, riuscirono a riportare le carni di Agata trafugate a Costantinopoli nel 1040.
Tutto si ripete e l’intera municipalità è in pigiama, insomma: i cittadini tutti accorrono alla notizia. Pure i mafiosi. Ma questi l’aspettano per farsene vanto, costringono il fercolo a una sosta sotto il balcone della loro casa. Accade che la notte del 4 febbraio 1993, nei pressi di via Plebiscito, un malacarne volle fermare per proprio orgoglio una delle dodici candelore e così magnificare l’istante di presenza di Agata. Solo che padre Alfio Spampinato, cappellano militare della Folgore, nell’amministrare una benedizione con tanto di segno di croce assestò un ceffone sul volto del prepotente per farlo inginocchiare e lasciare camminare i devoti, liberi finalmente di pagare pegno alla prepotenza e proseguire, tra ceri e cori, nella festa agatina.
Tutto uno scambio di mondi e di epoche, ancora oggi. Nel trionfo del suo simulacro, florido di vita, nell’orgoglio del seno Iside portava conforto alle genti. Dalle sabbie d’Egitto fino al tempio eretto in suo onore dalle vergini di Benevento, sotto Diocleziano, Iside — condotta in trionfo — faceva pappa del suo stesso corpo mistico nel segno della dolcezza di un seno moltiplicato nella felicità di dare vita. Come dà vita quell’idea di gastronomia diventata poi, con Giuseppina Torregrossa, Il Cunto delle Minne: i pasticcini di Catania, fatti a forma di seni, con i capezzoli di marzapane. Quelli che vengono regalati dalle nonne alle ragazze. E sempre due di due. Iside abitò il culto di Demetra, quindi ebbe trasfigurazione nella Vergine — ebbe l’infante tra le braccia — e così Agata, come l’archetipo, è resa sovrana da san Pietro che la visitò in carcere per recarle conforto prima che le venissero estirpate le mammelle.
Incoronata, Agata è assisa nella gloria della fede in Cristo, il Risorto, e perciò procuratrice per i devoti di copiose benedizioni e intercessioni presso Iddio, il termine ultimo di un dominio dove quelle stesse maree, i sommovimenti della crosta terrestre e, non ultimi, gli incubi, vengono capovolti in sogni; in declivi sovrabbondanti di ginestre — quella terra, come quando le piante bucano la pietra — e poi ancora in fragrante schiuma il cui rumoreggiare, nelle onde, ripete la preghiera di Agata.
Giornalista e scrittore, Pietrangelo Buttafuoco (Catania, 1963) scrive per «Il Foglio» e «la Repubblica». Tra i suoi libri, Le uova del drago (2005), L’ultima del diavolo (2008), Il lupo e la luna (2011), Fuochi (2012), Il dolore pazzo dell’amore (2013).